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CHAPTER IV

FURTHER READINGS

This is a collection of some passages in Italian from articles that deal with the diffusion and role of English in present-day Italy.(1) They are not specialist analyses of the problems but simply an opportunity for further reflections on some of the points dealt with in the Notes.

Welfare

Un articolo su Cultura oggi (a. IX, n. 2, p. 41) inizia definendo l'espressione inglese "Welfare State" come "Stato assistenziale", "Stato del benessere". Etimologicamente, il welfare o well-fare era il 'ben viaggiare', il 'ben portarsi'. Nel tedesco moderno troviamo il verbo fahren per 'viaggiare', mentre nell'inglese d'oggi fare è il costo del viaggio, la tariffa: "Fares, please!" diceva il fattorino degli autobus londinesi passando a vendere i biglietti. La parola welfare ha gli stessi componenti di farewell, l'augurio fatto alla persona dalla quale ci congediamo. In italiano la affidiamo alla protezione divina (addio = a Dio), in inglese le auguriamo un buon cammino.

Col tempo, e come avviene con molti vocaboli, la parola welfare ha cominciato a vivere una vita autonoma, svincolata dalle sue origini. Gli economisti "classici" (Adam Smith, T.R. Malthus, David Ricardo, John Stuart Mill e numerosi altri) l'hanno usata con riferimento non tanto all'individuo quanto piuttosto alla dimensione sociale della disponibilità di beni sufficienti a garantire non solo l'essere, la sopravvivenza, ma un grado minimo accettabile di benessere.

Si comprende allora come sia avvenuto che quando il governo laburista nell'immediato dopoguerra ha inteso garantire servizi sociali per tutti i cittadini "dalla culla alla tomba", a questo sistema sia stato dato il nome di Welfare State. Questa, tuttavia, non è la fine della storia di welfare. L'espressione "to be on welfare" significa, specialmente negli Stati Uniti, "godere dell'assistenza pubblica", e quindi trovarsi al di sotto della soglia del reddito minimo ritenuto indispensabile. In altre parole, in questo contesto welfare è sinonimo di malessere, di grave disagio sociale, in una società nella quale il fruire di una negative tax (ossia ricevere contributi governativi invece di contribuire al bene comune) significa essere cittadini di seconda categoria.

Cittadini o contribuenti?

Le parole, e l'uso che se ne fa, sono una spia acutissima della mentalità di un popolo. Da noi si parla di 'diritti del cittadino', di garanzie dovute per il dato basilare di appartenere alla Repubblica. Cittadini si è senza alcun merito o impegno particolare, e sin dalla nascita, quando ancora non può essere maturata alcuna coscienza civile. Anzi, in casi particolari di eredità, il soggetto dei diritti è il bambino non ancora nato: con buona pace degli abortisti, esiste l'istituto giuridico del "curator ventris", il tutore del feto in formazione.

Negli Stati Uniti e altrove si parla più spesso di 'diritti del contribuente': il taxpayer è colui che avendo adempiuto al proprio dovere civico di pagare le tasse ha, in virtù di ciò, il diritto di pretendere la gestione corretta e trasparente del denaro versato nella cassa comune. Non per nulla lo stesso governo degli U.S.A. viene chiamato Administration: questa denominazione è coerente con il clima concettuale sopra delineato, un clima per cui chi è on welfare vive il doppio disagio di una condizione di indigenza e di una inferiorità civica rispetto al contribuente. Qui riaffiorano chiaramente le matrici protestanti (soprattutto calviniste e puritane) della cultura americana: se Dio è con te, lo si deve vedere dal tuo successo già in questa vita.

Non ci addentriamo ulteriormente in considerazioni di ordine sociopolitico perché ci mancano le competenze specifiche e soprattutto perché il nostro obiettivo è diverso. Abbiamo preso le mosse da una parola inglese, welfare, per giungere a scoprire come, a partire da essa, si aprono itinerari di ricerca e spunti di riflessione a più livelli ed in varie direzioni - dall'etimologia alla linguistica contrastiva, e soprattutto dalla lingua alla cultura di cui essa costituisce un 'precipitato', una cristallizzazione poliedrica e, per chi sa leggerla, ricchissima di informazioni.

Le dimensioni dell'educazione linguistica

Il fine di queste considerazioni, come si accennava, è quello di mettere in luce alcuni tratti dell'educazione linguistica ai quali non sempre viene dato il rilievo che meritano. Esiste, ed è molto diffusa, una visione riduttiva secondo la quale il fine primario, se non unico, dell'apprendimento delle lingue straniere è quello di dotarsi di strumenti di comunicazione internazionale. Non si può sottovalutare questa valenza strumentale: se lo studio delle lingue non ha come esito lo sviluppo di una competenza comunicativa, questo studio viene percepito come una vacua esercitazione intellettuale, astratta ed avulsa delle esigenze del mondo contemporaneo. Ma questa non è la sola valenza presente in educazione linguistica - se lo fosse, non avrebbe senso pensare ad un Liceo (con la L maiuscola) la cui qualificazione è quella di essere linguistico: basterebbero scuole professionali di lingue straniere.(2)

Riduttiva, sia pure su un piano completamente diverso, è anche la concezione che vede la valenza formativa dell'educazione linguistica realizzata essenzialmente attraverso l'accostamento alle opere letterarie in lingua straniera. Anche qui sarà bene non equivocare: uno svilimento della letteratura (non si sa bene in nome di che) è pura follia. Gli stessi studi di linguistica testuale, sempre più diffusi ed approfonditi, confermano che i testi letterari rappresentano in assoluto quanto di meglio una lingua può offrire. In questo senso, gli autentici esperti di Textlinguistik sono gli scrittori ed i poeti che ci rivelano nel modo più raffinato quali gradi di espressività e di comunicatività un codice linguistico sia in grado di raggiungere.

Nel riaffermare quindi il valore della letterarietà, in lingua straniera non meno che in lingua italiana o nelle lingue classiche, occorre però rilevare che l'accostamento ai testi letterari può avvenire soltanto a livelli avanzati di conoscenza della lingua straniera, se si vuole che ci sia un autentico apprezzamento del valore estetico delle opere esaminate e non una semplice comprensione del testo (tanto varrebbe, altrimenti, servirsi di una buona traduzione). Occorre soprattutto rilevare che altrettanto formativa è l'analisi dei nessi tra lingua e cultura in senso lato, nessi presenti già nella lingua dell'uso quotidiano e nei testi non letterari, nel fenomeno dei 'prestiti' (le parole straniere 'importate' nella nostra lingua) e dei 'calchi' (le parole italiane create o rimodellate sulla base di vocaboli esteri), e in innumerevoli altri aspetti di quell'universo che va sotto il nome di lingua, in cui si condensano storia e costume, vita e pensiero.

Se partendo da welfare abbiamo visto aprirsi orizzonti sconfinati, percorsi altrettanti ricchi possono prendere avvio da parole di uso quotidiano e da espressioni tanto note quanto poco analizzate. Per concludere con qualche altro esempio parleremo di bistecche, Beatles e Rolling Stones. Bistecca è la forma italianizzata di beef steak; beef (che ritroviamo nel roast-beef) deriva dal latino bove(m) attraverso il francese boeuf, perché in Inghilterra, dopo la conquista normanna del 1066, la carne prende il nome dalla lingua dei dominatori, mentre l'animale vivo mantiene il nome anglosassone, dalla lingua dei mandriani che lo accudiscono (ox, plurale oxen; Oxford è 'il guado dei buoi'). Coppie analoghe si hanno in pork/pig (maiale), veal/calf (vitello) e mutton/sheep (ovino).

I Beatles associano nel loro nome le suggestioni offerte dall'omofonia con la parola beetle (scarafaggio) e dai diversi significati che beat assume in musica e nella storia del pensiero e del costume (le varie manifestazioni più o meno riconducibili all'esistenzialismo, dalla Beat Generation ai movimenti di 'contestazione globale'). E che vuol dire Rolling Stones? "Lo sanno tutti", è la risposta normale: "pietre rotolanti." Sì, ma che significa? Se non si conosce un proverbio noto a tutti gli inglesi secondo cui A rolling stone gathers no moss (letteralmente: una pietra che rotola non raccoglie muschio), non si capisce che 'rolling stone' è un giovane alla ricerca di un ubi consistam, di un proprio ruolo nella vita e nella società, di una carriera che gli consenta di 'raccogliere il muschio', di diventare cioè terreno fertile e non restare a far parte di una pietraia arida.

Gli esempi, come le pietre, li possiamo trovare ad ogni pie' sospinto. Alla base c'è comunque il riconoscimento di una concezione antropologica della cultura: il vissuto quotidiano, gli usi ed i costumi di un popolo, e non solo la civiltà che si esprime nelle opere più alte dell'ingegno, dalla scienza alla letteratura. E c'è la precisa percezione di come lo studio delle lingue consenta approfondimenti a tutti i livelli, fino a cogliere le radici della humanitas di quell'homo loquens che è stato creato a immagine e somiglianza del Logos.

L'inglese dei giornali

Sabato 7 dicembre 1991, ricordando il cinquantenario dell'attacco giapponese a Pearl Harbor, il Giornale (allora ancora diretto da Montanelli) pubblicava una carta dell'isola di Oahu che indicava la posizione di Honolulu, della stessa Pearl Harbor e di una serie di obiettivi militari, tra cui le "Baracche Schofield." Nessuno in redazione si è chiesto come mai delle baracche avessero un nome e costituissero un obiettivo militare. Per avere la risposta sarebbe bastato consultare qualsiasi dizionario, da cui si ricava che barracks significa "caserma", ma pare che la pseudoconoscenza dell'inglese da cui molti sono affetti faccia perdere l'umiltà che porta ad effettuare alcuni semplici controlli.

Più recentemente un altro importante quotidiano milanese (Corriere della Sera del 19.6.92, p. 44) invoca una "autority" (sic) dell'ambiente, per studiare e possibilmente risolvere il problema del traffico urbano. Forse perché la grafia del titolo appare carente, la parola viene immediatamente ripetuta nella prima riga del testo, questa volta come "autorithy". Dopo due sbagli diversi in due righe, la parola non viene più usata.

Qui però il discorso non si limita a recriminare che non si sappia (o non si voglia) usare il dizionario per verificare l'ortografia; bisogna chiedersi perché i giornalisti facciano ricorso a certe parole straniere, anche a rischio di infortuni professionali. La parola authority è un caso interessante. Come nome astratto, essa equivale al nostro autorità sia nel senso di "prestigio morale, stima, credito" di cui gode qualcuno, che di "potere legittimo, facoltà di comandare"; al plurale, le authorities sono, analogamente all'italiano, le persone investite di pubblici poteri. La parola authority possiede però, come sostantivo singolare concreto, altri due significati che in italiano vengono resi altrimenti. Il primo è quello di "autorizzazione", ossia di permesso ufficiale di fare qualcosa; e il secondo è quello di "ente", nel senso di "organismo preposto alla gestione di un servizio pubblico." Ad esempio, la Port of London Authority, le cui iniziali P.L.A. spiccano sugli imbarcaderi del Tamigi, altro non è che l'Ente del Porto di Londra: l'idea astratta di prestigio e di autorevolezza è completamente assorbita da quella di "organismo di gestione."

Tornando a Milano, se quello che si propone è un ente per la viabilità, con interventi attenti agli aspetti ecologici, perché non dirlo chiaramente invece di ricorrere alla parola straniera? Possiamo supporre, sulla base del contesto, che si sia anzitutto voluto evitare la parola ente perché ampiamente screditata: si è parlato a lungo di enti inutili, anche se poi non ne sono stati soppressi molti, e più recentemente vi sono stati scandali politico-amministrativi connessi ad enti... partiti per la tangente. E allora lo sconforto non riguarda più le disortografie, ma gli episodi di cattiva amministrazione della cosa pubblica.

La scelta di authority, al di là della sua scarsa appropriatezza rispetto all'uso che se ne fa nella lingua d'origine, verosimilmente vuol proprio suggerire l'esigenza di recuperare quelle qualità di prestigio, stima e autorevolezza di cui si avverte un gran bisogno. Se le cose stanno così, lo snobismo che troppo spesso fa preferire parole inglesi a parole italiane c'entra poco: c'è, invece, il non confessato desiderio di recuperare quell'autorità che anni di contestazione velleitaria hanno cercato invano di cancellare come esigenza sociale, un'autorità fatta non certo di autoritarismo arrogante ma di competenza e senso di responsabilità.

Dietro e sotto le parole, quindi, c'è molto più di quanto non appaia ad uno sguardo distratto. Se ci soffermiamo ad osservare i prestiti stranieri che quotidianamente ci vengono posti sotto gli occhi possiamo trarre spunti di riflessione a vari livelli: dalla constatazione della superficialità ed approssimazione con cui usiamo i vocaboli nostri ed altrui, fino alle tensioni che si esprimono inconsciamente quando si rifiutano certe parole per preferirne altre.

Giochi (di parole) proibiti

C'è un altro fenomeno recente che dev'essere tenuto sotto sorveglianza stretta, ed è il proliferare, nella pubblicistica ad alta diffusione, delle opere che in vari modi si occupano di aspetti e problemi linguistici. Alcune di esse, come certi libri di Marchi sulla lingua italiana e latina, e le "lezioni semiserie" di inglese di Beppe Severgnini, hanno il pregio di fornire in modo divertente e accattivante informazioni, nozioni, curiosità interessanti e spunti per ulteriori approfondimenti; sono attuazioni dell'antico ma sempre valido monito che prescrive di docere delectando (quando ci si riesce).

Molto più spesso, si tratta di opere presentate sotto l'etichetta di "libri comici" e il cui scopo dichiarato è quindi solo quello di procurare momenti di evasione; obiettivo certamente legittimo ma che può nascondere qualche insidia. Fino a che punto è lecito giocare con le parole? E ancor prima: da che cosa nascono i giochi di parole, e che ruolo possono avere?

Fondamento dei giochi di parole è il fatto che i legami tra il piano della realtà conosciuta o pensata (cose, azioni, concetti e idee) e il piano della lingua in cui si esprime tale realtà (vocaboli e strutture) sono spesso legami incoerenti - in linguistica si parla di arbitrarietà del segno, ove per segno si intende la connessione tra significato e significante. La stessa parola può rinviare a due o più significati ("a letto ho letto un libro") e per converso significati quasi identici possono essere rappresentati da significanti molto diversi tra loro: parola/vocabolo, divertimento/svago/passatempo, e innumerevoli altri esempi. La somiglianza tra due parole può non avere alcun rapporto con la vicinanza o lontananza dei rispettivi significati: si vedano le coppie baleno/balena e pizzo/pizza in contrasto con tavolo/tavola e mattino/mattina.

Ogni lingua ha strutture grammaticali ed un patrimonio fraseologico che esistono al di fuori del singolo parlante e sono sottratti al controllo di ciascuno e di tutti, così che nessuno può permettersi, di punto in giallo, di alterare il sistema. Di punto in giallo è, ovviamente, una violazione deliberata rispetto a "di punto in bianco", violazione che qui ha lo scopo di sottolineare come le espressioni idiomatiche siano immutabili (l'altra loro caratteristica è che il significato complessivo può non avere nulla in comune con alcuno degli elementi costitutivi: né punto, né bianco né le due preposizioni di e in hanno di per sé a che vedere con l'idea di "improvvisamente").

Chi "gioca con le parole" trova percorsi alternativi tra significanti e significati, sfruttando i doppi sensi, le somiglianze a livello fonico (con cambi di lettere, spostamenti d'accento, ecc.) e altre caratteristiche del sistema. Ecco allora che per il Dizionario alternativo di Boris Makaresko i petrolieri sono "gente di tanica larga" e ciclostile significa "eleganza nel pedalare."

I giochi di parole li troviamo già in Omero: è celeberrimo l'episodio di Polifemo accecato da Ulisse che, modificando lievemente il suo nome, dice di chiamarsi Nessuno: la somiglianza, notevolissima nella lingua omerica, viene persa in traduzione. In ambito letterario troviamo ogni tipo di gioco di parole, dai doppi sensi alle scelte di vocaboli determinate da rime, assonanze o allitterazioni; il tutto finalizzato agli scopi più diversi, dall'armonia del verso alla "frase ad effetto" destinata ad imprimersi nella memoria del lettore, fino a giochi sottili di allusioni, ironie e richiami incrociati che consentono "letture del testo" a vari livelli.

La capacità di cogliere le trame plurime tra le parole e i loro significati è indice di spiccata intelligenza verbale; al tempo stesso il ricorso ai giochi di parole è uno dei mezzi che ne favoriscono lo sviluppo. Qualche anno fa destò interesse il volume di Ersilia Zamponi I draghi locopei (anagramma di "giochi di parole") sulle esperienze didattiche condotte in una scuola media in provincia di Novara. L'abitudine a manipolare la lingua italiana in modi non convenzionali aveva condotto gli scolari ad una più elevata sensibilità linguistica e ad una molto maggiore attenzione al valore delle parole.

"Chi non Fisica non fosica" si legge su un banco d'università e vien da pensare a uno studente che distrattosi ha lasciato vagare la mente, magari chiedendosi se valesse la pena di tentare di superare un certo esame, ed ha colto la rima tra la materia studiata e il "risica" del proverbio. "Favori in corso" si leggeva sulla parete di un cantiere di una delle società sotto inchiesta per gli appalti irregolari. "Difficile pronuncia, impossibile rinuncia" rima lo slogan di una marca di elettrodomestici il cui nome, Whirlpool, sembra studiato apposta per essere storpiato dagli italiani (se Whirlpool fosse stato tradotto, forse qualcuno avrebbe coniato lo slogan "incontro al Vortice"...). Scoperte così ne possiamo fare molte ogni giorno: basta tenere occhi e orecchie ben aperti. Dalle barzellette alle canzoni, dalle filastrocche per bambini agli slogan politici, i giochi di parole fanno parte della nostra vita e, nel complesso, la arricchiscono.

Non è quindi questo il livello di uso linguistico che ci può preoccupare; è vero che la prosa "brillante" o il discorso ricco di calembours a volte hanno il solo fine di mascherare il vuoto delle idee, ma lo stesso avviene - e anche con maggiore frequenza - con testi imbottiti di paroloni e tecnicismi. I libri la cui lettura ci ha suggerito riflessioni allarmate sono quelli in cui o ci si prende gioco dei solecismi oppure ci si preoccupa del dire ma non del fare. Un esempio del primo tipo è Il novissimo Ippoliti della lingua italiana, un "dizionario" che raccoglie gli strafalcioni più notevoli registrati nella trasmissione televisiva Non è mai troppo tardi, un programma in cui vengono messe alla berlina persone di scarsa cultura che "spiegano" a modo loro le parole o le espressioni proposte loro dal conduttore Gianni Ippoliti. Si può sorridere di quegli spropositi solo se si riesce a convincersi che l'ignoranza possa fare spettacolo.

Al secondo tipo appartengono libri sempre più numerosi (soprattutto all'estero, ma la tendenza è già avvertibile anche da noi) che non si preoccupano di analizzare fenomeni sociali come il razzismo, il sessismo, l'ecologismo, ecc. e di proporre interventi coerenti con i risultati dell'indagine e idonei a conseguire i risultati sperati, ma si concentrano sul linguaggio che è (o si presume che sia) la spia di tali atteggiamenti. Sembra che a molti non importi tanto favorire i rapporti tra persone e popoli affinché si conoscano meglio e quindi scoprano il piacere dell'amicizia al di là delle differenze di religione, cultura, lingua e colore; la loro prima preoccupazione è di impedire che si dica o scriva, ad esempio, "gli studenti" intendendo "studenti e studentesse" (un uso ritenuto maschilista), o si usino espressioni come "di umor nero" o "arrabbiato nero", sospette di razzismo - ma allora forse sono razziste anche "giallo di rabbia" e "rosso per la vergogna."

Non so se sia vero che Donna Ellen Cooperman, dopo un anno di battaglie nei tribunali dello Stato di New York, ha ottenuto di chiamarsi Donna Ellen Cooperperson - un cognome "non sessista"; di certo un operatore televisivo, soprattutto negli U.S.A., non è più un cameraman ma una cameraperson. Che poi una cameraperson di sesso femminile riesca, a parità di qualifica professionale, ad avere gli stessi diritti, stipendi e prospettive di carriera dei colleghi maschi, sembrerebbe questione tutto sommato secondaria.

Assistiamo perciò ad una decostruzione del linguaggio, ossia ad uno smontaggio delle parole esasperato e, almeno in apparenza, fine a se stesso. C'è chi ha proposto in tutta serietà che accanto alla history (che contiene il possessivo his) si faccia studiare a scuola la herstory, ossia la storia esaminata dal punto di vista femminile. E poiché son significa "figlio", anche cameraperson può essere una parola sessista, alla quale dovrebbe almeno essere affiancata cameraperdaughter.

Chi si imbarca in tali proposte respinge come dato irrilevante il fatto che le parole latine historia e persona (entrambe, vedi caso, di genere femminile) non potevano certamente prefigurare i maschili inglesi his e son. L'estremismo verbale, al di là di ogni utilità e senza alcuna prospettiva di successo, cela la crisi delle ideologie, e soprattutto lo smarrimento di molti di fronte al crollo di quella che per decenni ha tentato di imporre la propria egemonia. Sotto la facile e labile etichetta del post-moderno si propugna un mondo di parole che agisce da cortina fumogena, nascondendo una realtà sociale che in tanti casi ci chiede invece di rimboccarci le maniche e di esprimere la nostra solidarietà. Non solo a parole, si intende.

Tradurre e no

Il giorno in cui scriviamo queste note è ricco di spunti per chi dedica parte del suo tempo libero a raccogliere dati sulla presenza della lingua inglese in Italia, e poi se ne serve per qualche riflessione. L'Avvenire annuncia (3.10.1992, p. 3) che "anche Scalfaro pagherà le tasse. L'austherity entra al Quirinale"; è una buona notizia, anche se con una h di troppo. Come l'autorithy del Corriere della Sera, anche l'austherity la troviamo nella prima riga del testo. Evidentemente è bene che il lettore sia immediatamente colpito dal vocabolo straniero, e dalla maestria con cui il giornalista se ne serve.

Ancor meglio a pag. 7 dello stesso numero, ove titolo e sottotitolo recitano: "Addio, vecchio policlinico: arriva l'ospedale hi-tech. L'hospital del Duemila sarà specializzatissimo e ad alto imput (sic) tecnologico". E' lo schema ricorrente: ciò che il futuro ci porterà, molto più efficiente di ciò che abbiamo ora, avrà un nome inglese -- non un ente ma un'authority, non un ospedale ma un hospital, e così via. Rimane la speranza che almeno sia vera la presenza delle tecnologie avanzate, anzi della high technology con la quale è tale ormai la confidenza che possiamo chiamarla familiarmente hi-tech.

Difficoltà di assimilazione

Per il linguista il caso più interessante è quello di imput, ripetuto nella decima riga con l'identico errore di ortografia. In italiano abbiamo sempre l'assimilazione della consonante nasale che precede i suoni [b] e [p]. Così ad esempio il prefisso negativo in-, che troviamo nella coppia utile/inutile, diventa im- se l'aggettivo che segue inizia per p o b, come in puro/impuro. E senza accorgerci pronunciamo [m] invece di [n] anche quando c'è una n nella grafia, come in INPS, ENPAS, ANPI, ecc. nonché in tutte le espressioni che presentano la sequenza di [n] + [b/p]: in banca, San Pietro, con piacere, e così via. Si confrontino con i composti come saltimbanco, sampietrino, compiacere, ecc., ove la m ricompare; se non ci aiutasse ogni volta il contesto, nell'ascolto non distingueremmo imbarca da in barca.

Nella lingua inglese, invece, i prefissi come in- e un- non solo rimangono inalterati nella grafia ma esigono la [n] anche nella pronuncia: così in input e unbelievable (incredibile), ma la stessa dissimilazione la ritroviamo in nomi composti come manpower, in nomi propri come Edinburgh (Edimburgo) e Danby, e in molti altri casi. Bisogna quindi scrivere e dire sempre input con la n ben distinta, se non si vuole denunciare una conoscenza approssimativa e superficiale dell'inglese scritto e parlato -- e se non si vuole proprio usare la nostra lingua: perché non dire "ad alto tenore (o contenuto) tecnologico"?

Montini High School, Magliocco Street

Lo spunto [...] ci è stato dato dal volantino della Festa dell'Oratorio parrocchiale. Lo sponsor (parola latina, e inglese solo di seconda mano) nel suo spazio pubblicitario indica l'ubicazione dei suoi negozi, uno dei quali si trova nella Vittorio Emanuele Arcade. E' un ibrido interessante per l'analisi di alcuni aspetti sociolinguistici della traduzione, aspetti che vengono sempre più spesso ignorati non solo nella coniazione di nomi come quello citato, ma anche in traduzioni che dovrebbero avere ben altro impegno.

I nomi dei sovrani (e dei rispettivi consorti ed eredi al trono) sono normalmente tradotti nelle altre lingue: in italiano parliamo di re Baldovino, della Regina Elisabetta, del principe Filippo, e non di re Baudouin, della regina Elizabeth, e del principe Philip. E' peraltro sufficiente essere la sorella della regina per essere chiamata Margaret e non Margherita. Naturalmente lo stesso avviene, nella direzione inversa, per i sovrani italiani: nei testi inglesi re Vittorio Emanuele è sempre e solo king Victor Emmanuel.

Poiché lo stesso vale per i santi e i papi, troviamo in inglese St. Thomas Aquinas, St. John Bosco e Pope John Paul mentre noi di St. Thomas More abbiamo italianizzato anche il cognome, ottenendo San Tommaso Moro. Questo ci conduce alla seconda categoria di nomi propri che devono essere tradotti: i nomi di personaggi 'classici'. I filosofi inglesi Roger Bacon (1214?-1294) e Francis Bacon (1561-1626) li abbiamo fatti diventare Ruggero e Francesco Bacone -- l'italianizzazione non si è spinta fino a tradurre bacon con 'pancetta affumicata'. Allo stesso modo dobbiamo rispettare l'anglicizzazione di Petrarch, Michael Angelo, Christopher Columbus e altri.

In molti casi abbiamo situazioni ancora più complesse: il moravo Jan Amos Komenski (1592-1670) scriveva in latino firmandosi Comenius; da noi è noto come Comenio mentre nei paesi di lingua inglese viene spesso citato come John A. Comenius, con una pronuncia anglicizzata del cognome latino. Cartesio è per gli inglesi René Descartes, pronunciato alla francese, anche se usano poi i termini Cartesian e Cartesianism; analogamente si comportano col tedesco Johannes Kepler, mentre il polacco Mikolaj Kopernik è chiamato alla latina Nicolaus Copernicus. Percorrere ognuna di queste vicende analizzandola a fondo condurrebbe ad approfondire il tema dei rapporti tra lingue e culture nell'Europa dei secoli scorsi.

Un altro lascito delle vicende storiche è costituito dai toponimi. In ogni lingua abbiamo la traduzione dei nomi di stati e regioni, nonché delle principali città. Così la nostra città è Milan in francese e in inglese, Mailand in tedesco e Milàn in spagnolo. Per inciso, la pronuncia inglese ha l'accento sulla sillaba finale; i tifosi della squadra, fondata da inglesi alla fine del secolo scorso, continueranno a dire Mìlan, ma chi vuol comunicare con gli inglesi farà bene ad usare la pronuncia corrente nella loro lingua.

Altre città italiane con un nome inglese sono Rome, Naples, Turin, Venice, Florence, Padua, Genoa (anche qui con esiti calcistici), Mantua e Leghorn. Tra le regioni ricordiamo Piedmont, Lombardy, Venetia, Tuscany, Latium, Sicily e Sardinia. Altri nomi geografici sono the Alps e the Tiber. In qualche caso il nome storico è sempre meno usato e sostituito dal nome italiano: così è per Livorno e, tra i personaggi, per Michelangelo.

A nostra volta abbiamo italianizzato le capitali: Londra, Edimburgo e Dublino, nonché nomi di regioni e di arcipelaghi (Gran Bretagna, Inghilterra, Scozia, Galles, Irlanda, Cornovaglia, Isole del Canale, Ebridi e Orcadi), chiamiamo Manica quel tratto di mare che i francesi chiamano la Manche e gli inglesi English Channel, e ricambiamo con i Monti Pennini e Grampiani, e con il Tamigi, il fiume della capitale.

Tra i molti casi curiosi, c'è quello dell'Austria e di Vienna: troviamo queste parole anche in lingua inglese invece degli originali tedeschi Oesterreich e Wien, o di un loro diretto adattamento. In inglese, come nelle altre lingue, si annulla l'omonimia tra Monaco di Baviera (München, in inglese Munich) e Monaco-Montecarlo (Monaco). Il nostro obiettivo non è però quello di elencare casi particolari -- un elenco che facilmente porta alla noia -- ma di sollecitare un'attenzione costante agli usi specifici e a non produrre (come pure ci è capitato di leggere) frasi come "decise allora di andare ad abitare a Köln."

Dopo aver sottolineato una serie di casi in cui la traduzione è doverosa, anche se a volte problematica, vale la pena di esaminarne alcuni in cui il ben tradurre equivale al non tradurre. Il primo riguarda la toponomastica cittadina: non parliamo di Via della Pace e Piazza della Concordia, né di Via del Reggente o Vicolo del Soldo, o di Viale Sottoitigli. Rue de la Paix, Place de la Concorde, Regent's Street, Penny Lane e Unter den Linden fanno parte, a diverso titolo, di un patrimonio culturale condiviso internazionalmente. Allo stesso appartengono anche Piazza del Duomo, Via Montenapoleone, Piazza della Scala, ecc. che quindi non diventeranno Cathedral Square, Mount Napoleon Street o Scale Square se non per scherzo -- e in effetti le "traduzioni" su tante cartoline hanno un irresistibile effetto umoristico sui turisti. La Scala è La Scala, nota nel mondo col suo nome italiano quanto e più dell'Opéra, del Covent Garden (che non è il giardino di Covent) e del Metropolitan.

Lo stesso vale per le istituzioni tipiche: come public schools denota, intraducibilmente, alcune prestigiose e tradizionali scuole private inglesi, così il liceo italiano è, nel bene e nel male, soltanto nostro; non è una generica high school (scuola secondaria) e nemmeno un lycée, una Realschule o un Gymnasium. Si chiama Liceo, e tanto deve bastare.

Il tentativo di 'tradurre' "Liceo Montini, Via Magliocco" come Montini High School, Magliocco Street sarebbe quindi l'esito di un grave errore di prospettiva -- così come lo è, anche se meno evidente, Vittorio Emanuele Arcade. Se non si vigila, tuttavia, e non si sviluppa un'adeguata sensibilità e cultura interlinguistica, questo è il tipo di ibrido che minaccia di diffondersi sempre di più, a partire dai titoli "bilingui" dei giornali. La risposta è la riscoperta della teoria e tecnica della traduzione, che è al tempo stesso un artigianato paziente, attento ai dettagli, e un'arte che richiede solide basi culturali.

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